Richard Wright – Big Black Good Man

È l’ultimo racconto scritto da Richard Wright nel 1957. C’è un calo di tensione narrativa classico, è un racconto privo di storia, non c’è uno sviluppo, non c’è l’azione e quando c’è è ridotta ai minimi termini. Abbiamo i ricordi, le paure, i sogni, le reazioni psicologiche del protagonista; è un racconto molto insolito per un afro – americano perché sceglie un protagonista bianco, Olaf Jenson, un danese di 60 anni non particolarmente simpatico. Wright sceglie Copenhagen come ambientazione perché è un paradiso per le situazioni razziali, e sceglie un bianco che non è particolarmente cattivo, è un uomo qualunque senza virtù o difetti particolari. Avrebbe potuto avere una vita migliore ma è soddisfatto di quella che ha, non è neanche particolarmente razzista, si auto – presenta come non razzista, ma è dominato dal problema della razza non per condizionamenti sociali. Cerca di controllare la sua montata di razzismo che sta nascendo al suo interno perché è libero da pregiudizi; è una situazione artificiosa, sembra un racconto trattato a tavolino. Olaf ha passato dieci anni in America e da questo possiamo presumere che sia diventato razzista dopo essere stato qui. L’artificiosità è data dal fatto che Olaf è un uomo pavido, non simpatico, messo in crisi dalla presenza di un Altro (con la A maiuscola). Olaf è un uomo senza vitalità, è un bianco guardato attraverso l’ottica del pregiudizio. Il nero all’inizio è rappresentato come una cosa nera, una montagna, un toro, un bufalo. Data la situazione iniziale c’è un’inversione di stereotipi razziali, il nero è sicuro di sé, deciso, ricco, dà ordini all’uomo bianco, è il nero che si rivolge al bianco con l’appellativo di “boy”. Il nero americano qui si muove in un ambiente europeo, libero da condizionamenti razziali, lui è un cliente e basta. Abbiamo una situazione stereotipata rovesciata in cui il nero ha il ruolo del bianco e viceversa. L’artificiosità è anche data dal fatto che di questo nero noi non sappiamo e non capiamo nulla, non entriamo nella sua mente, lo vediamo attraverso la descrizione di Olaf. Per il nero abbiamo una rappresentazione di un corpo molto forte e di un viso stravolto nei suoi particolari: occhi piccoli, bocca enorme. Il bianco ha una reazione istintiva con cui fare i conti nei confronti del razzismo. Il nero va nell’albergo dove lavora Olaf, ci sta per sei giorni e l’ultimo giorno c’è il confronto diretto tra i due protagonisti. L’unica azione è data dalla scena delle mani nere che stringono il collo bianco, in realtà è un’opera buona, il nero misura il collo di Olaf, terrorizzato e devastato dalla paura, per fargli una camicia.

Gli anni in cui Wright ha scritto questo racconto sono anni di forte tensione razziale. Il nero si ripresenta dopo un anno per dare la camicia ad Olaf ed è proprio Olaf che ci spiega il vero motivo delle mani nere attorno al collo bianco. L’afro – americano si è comportato in maniera spontanea, libero da condizionamenti razziali. Olaf si aspetta che il nero gli chieda una stanza ma il nero, che nel frattempo aveva frequentato una prostituta bianca con la quale ha messo su famiglia, non ha bisogno di una stanza. La compassione che il nero ha nei confronti del bianco è troppo carica di connotati e Olaf non accetta questa compassione. Ha una reazione fisica grottesca, c’è un’azione violenta non necessaria, il nero è il potenziale assassino. Da questo si capisce l’impossibilità di normali rapporti umani tra bianchi e neri, Olaf non riconosce l’umanità del nero. Il titolo è ambiguo perché si tratta di un “big black good man” ma dalla lettura che ne fa Olaf non la sua essenza di “good”.

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