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Economia dello sviluppo

Introduzione all’Economia dello Sviluppo (Franco Volpi)

Capitolo 1 – Sviluppo e sottosviluppo: concetti e ideologia

1. Che cos’è lo sviluppo

Nella lingua italiana sviluppo è “una modificazione quantitativa che avviene nel tempo con un avanzamento per stadi intermedi da un livello ad un altro”.

Dopo la seconda guerra mondiale, i termini “crescita economica” e “sviluppo economico” prendono spazio nella “scienza economica”. La distinzione tra i due termini è però incerta. Generalmente si parla di crescita con riferimento ai paesi industrializzati e di sviluppo con riferimento ai paesi con redditi inferiori ad un certa soglia.

Nel linguaggio degli economisti si contrappongono le economia “avanzate” a quelle “arretrate”. Lo sviluppo è allora il passaggio da un’economia arretrata ad una avanzata: un movimento verso il meglio.

2. L’idea di progresso

Fino all’età moderna l’Europa non si definì rispetto al mondo esterno. Il momento della svolta è la scoperta dell’America e l’incontro con gli indiani d’America.

Una volta conosciute le nuove popolazioni dell’America, gli Europei cercano di scoprire le origine di questi popoli, attraverso un metodo comparatistico. Questo metodo fa emergere il concetto d’arretratezza: i popoli selvaggi sono rimasti “indietro” rispetto agli Europei. In questo concetto è implicita una visione a stadi della storia umana, che passa da uno stadio all’altro in un progresso continuo e illimitato nel tempo.

L’idea di progresso entra nella cultura Europea nel XVII secolo, con le scoperte scientifiche che rivoluzionano il pensiero degli europei.

Quest’idea si estende alle scienza sociali definendo la tendenza al progresso come connaturata all’uomo: non è la sua natura a mutare, ma è l’accumularsi dell’esperienza che gli permette di progredire illimitatamente in un tempo che non conosce decadenza o fine.

L’idea moderna di progresso si afferma quando gli europei iniziano la loro espansione nel Nuovo Mondo e cominciano ad intessere una rete di scambi che darà luogo al mercato mondiale. In questo periodo nasce il capitalismo europeo.

3. Il progresso economico

L’origine delle popolazioni del Nuovo Mondo viene, nel XVIII secolo, ricercata non più nell’origine dei loro costumi, ma nel modo in cui essi si procurano da vivere, in poche parole nella loro economia.

Secondo alcuni studiosi tutte le civiltà passano da uno stadio iniziale, quello della caccia e della pesca, ad uno successivo, quello della pastorizia, per poi giungere a quello dell’agricoltura. Il passaggio da uno stadio all’altro permette una produzione più abbondante e determina l’aumento della popolazione e la nascita d’istituzioni.

Il quarto stadio fu definito “società commerciale” e le sue caratteristiche sono l’ineguaglianza degli uomini, la divisione del lavoro, l’estensione dello scambio e del commercio, l’accumulazione del capitale. Queste caratteristiche sono proprie dell’economia moderna che sta sorgendo: l’economia capitalistica.

La nascita del capitalismo si accompagna a due importanti sviluppi teorici. Il materialismo, che vede come caratteristico degli aspetti di una società il modo di procacciamento dei mezzi di sussistenza, insieme all’utilitarismo, che vede lo sviluppo economico come indice privilegiato del progresso sociale e il livello da esso raggiunto come criterio di confronto tra diverse società e culture. L’altro importante sviluppo teorico è quello che definisce il progresso come fondato nella natura umana e rallentato od ostacolato da ostacoli e barriere (i limiti al commercio, gli ostacoli al trasferimento degli uomini, i vincoli corporativi allo svolgimento di determinate attività).

4. L’ottimismo degli economisti

Gli economisti del settecento e dell’ottocento descrivono gli aspetti economici sulla base della storia d’Europa. Alcuni di questi (Smith e Marx) non ignorano però l’esistenza di popoli extraeuropei e anche se la dicotomia “sviluppo / sottosviluppo” non viene tematizzata esistono in questi autori elementi di analisi che giustificano una posizione ottimistica.

Secondo questi economisti il commercio internazionale non avrebbe solo effetti “diretti”, in termini di miglior utilizzazione delle risorse e di divisione del lavoro, ma anche effetti “indiretti”, nel senso di creare le condizioni socio-culturali per un impiego economico del lavoro e del capitale e quindi le premesse per il superamento della stagnazione e dell’arretratezza.

5. La nascita dell’economia dello sviluppo

Come è già stato detto, fino alla seconda guerra mondiale i problemi del sottosviluppo non sono oggetto di ricerca e di dibattito teorico.

Per fare in modo che la situazione cambiasse erano necessarie alcune condizioni. In primo luogo la rinuncia ai loro imperi da parte degli stati europei. Le nuove entità statali che nacquero entrarono nell’ONU e posero i loro problemi all’opinione mondiale. Un altro motivo fu la crisi economica degli anni ’30 che causò una contrazione di domanda di prodotti agricoli che venivano prodotti dai paesi dell’America Latina. La crisi economica favorì la nascita in questi stati di partiti nazional-populisti, che rivendicavano una piena indipendenza dalle potenze industriali. Un altro motivo ancora fu la vittoria dell’URSS nella seconda guerra mondiale che la pose come superpotenza mondiale accanto e contrapposta agli USA. L’economia sovietica era ben diversa da quella capitalistica e si poneva come alternativa al sistema occidentale. Le vie allo sviluppo sembravano poter essere più di una.

Un altro motivo importante fu di carattere più strettamente scientifico: viene incrinato il principio metodologico della unicità e universalità della teoria neoclassica ed è legittimata l’esistenza di una teoria economica dello sviluppo.

I successi dell’URSS e la simpatia che il suo sistema riceve in alcuni ambienti culturali, ridanno attualità alle teorie di Marx, che secondo Schumpeter avevano come punto centrale la problematica dello sviluppo.

Altra importante spinta alla nascita dell’economia dello sviluppo è la nascita dei moderni metodi di contabilità nazionale e i servizi statistici dell’ONU, che consentono di confrontare le diverse economie e rendersi conto del divario tra paesi “avanzati” e “arretrati”.

6. Il paradigma della modernizzazione

La constatazione del divario esistente tra i diversi paesi del mondo si pone al centro dell’attenzione degli economisti che formulano teorie sul perché questo è successo e sul come si può fare per risollevare la situazione. Le teorie prevalenti si richiamano a un paradigma (concezione) che ha i suoi fondamenti nella visione etnocentrica del progresso.

Secondo la maggior parte degli economisti lo sviluppo è un’evoluzione continua e necessaria. Quando questo è ostacolato da impedimenti di natura fisica, culturale o istituzionale, occorre rimuovere tali ostacoli. Il punto d’arrivo è l’economia moderna capitalistica occidentale.

Secondo Rostow lo sviluppo può essere riassunto in cinque stadi progressivi:

  1. Economia agricola tradizionale: bassa produttività, bassi livelli di risparmio, limitata mobilità sociale;
  2. Aumentano risparmio, investimenti e produttività agricola, si afferma un governo nazionale che promuove i trasporti e le comunicazioni;
  3. Take-off (decollo): aumentano ancora gli investimenti e gli ostacoli vengono rimossi, nasce l’industria manifatturiera e l’iniziativa individuale e il successo diventano valori diffusi in tutta la società;
  4. Il progresso tecnologico consente di produrre tutti i beni che l’economia in questione intende impiegare, consumare o esportare;
  5. Produzione e consumo di massa. I settori trainanti sono quelli dei beni di consumo durevoli e dei servizi. Parte delle risorse vengono destinate alla sussistenza di una politica di potenza o di influenza internazionale.

Questo modello può essere criticato su diversi punti: in primo luogo sugli estremi di questo processo, che equivalgono alla dicotomia “tradizionale” – “moderno”, e il “tradizionale” viene definito in negativo. Inoltre le economie “tradizionali” vengono osservate dal punto di vista occidentale impedendo la comprensione di atteggiamenti erroneamente considerati irrazionali o superficialmente visti come aspetti semplificati di fenomeni più complessi.

In questo studio cercheremo di sottolineare la rinuncia a pensare al sottosviluppo come ad uno stadio di partenza “naturale” da cui sono partite tutte le società del mondo. Il sottosviluppo attuale di alcuni paesi del mondo può essere ricondotto all’ideologia di una missione colonizzatrice dell’uomo bianco che giustificava le imprese delle potenze coloniali.

Capitolo 2 – Il sottosviluppo come processo

1. Alternative al paradigma della modernizzazione: le teorie dell’imperialismo e della dipendenza

1.1 La teoria dell’imperialismo

In base a quanto detto nel capitolo precedente si può riassumere:

  1. Sviluppo e sottosviluppo sono stadi “obbligatori” lungo una ideale linea evolutiva dell’umanità
  2. Ciò che è moderno è buono, ciò che è tradizionale è cattivo
  3. Svilupparsi per un paese sottosviluppato significa diventare più simile ai paesi occidentali.

A questa teoria si contrappongono altre ipotesi, definite “radicali” e “neo-marxiste”. I radicali non condividono in Marx l’idea che l’espansione del capitalismo, l’egemonia europea e la colonizzazione abbiano costituito un fattore di progresso.

Le teorie che analizzeremo sono: la teoria dell’imperialismo e la teoria della dipendenza.

Secondo Lenin “l’imperialismo è la fase monopolistica del capitalismo”. Questa definizione deve essere intesa come una descrizione di un rapporto tra un fenomeno (l’imperialismo) e le caratteristiche dell’altro. Queste caratteristiche sono:

  1. concentrazione monopolistica del capitale
  2. fusione del capitale industriale e di quello bancario in capitale finanziario
  3. importanza crescente dell’esportazione di capitali rispetto a quella di merci
  4. sorgere di associazioni internazionali di capitalisti
  5. ripartizione delle colonie tra le grandi potenze

Minore attenzione viene dedicata ai rapporti tra potenze imperialistiche e le loro colonie, e più in generale, tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. Sotto questo aspetto i due punti più discussi sono la ricerca delle cause che spingono i paesi capitalistici avanzati ad espandersi nelle aree arretrate e la valutazione delle conseguenze che a queste ne derivano.

Sul primo punto Hobson afferma che l’imperialismo ha la sua radice nell’eccesso di risparmio e nella limitatezza del consumo interno, che spinge i capitalisti a ricercare mercati per le loro merci e impieghi per i loro capitali. Sempre secondo Hobson la componente politica dell’imperialismo va ricercata nella convergenza tra interessi economici, ideologie nazionalistiche e militarismo, che spingono le potenze e cercare il controllo delle terre abitate da “razze inferiori”. Quindi l’imperialismo non sarebbe una caratteristica innata delle società capitalistiche, ma un effetto della cattiva distribuzione del reddito.

Secondo la Luxemburg l’economia capitalistica ha necessità di trovare sbocchi nei settori dove sopravvivono modi di produzione precapitalistici, prima all’interno, poi nei paesi arretrati. Questo spiega l’imperialismo e mostra come il graduale esaurirsi degli spazi esterni al capitalismo ne determini la fine.

Secondo Lenin le molle dell’espansione coloniale sono due: l’impossibilità di trovare investimenti per il capitale all’interno; la crescente scarsità di materie prime che rende più acuta la caccia alle loro sorgenti.

Secondo gli autori più recenti l’imperialismo è un ostacolo allo sviluppo delle aree arretrate per tre motivi essenziali:

  1. il conflitto tra gli interessi dei paesi sviluppati e lo sviluppo di quelli sottosviluppati, che determina le diverse misure economiche attraverso la quali le maggiori potenze capitalistiche proteggono le proprie attività produttive e dirigono a proprio vantaggio quelle dei paesi sotto la loro influenza;
  2. la debolezza delle economie arretrate sul mercato mondiale, per l’impossibilità di competere con quelle sviluppate e per il peggioramento a loro svantaggio delle ragioni di scambio;
  3. secondo alcuni economisti il capitalismo ha esaurito il ruolo di fautore propulsivo delle sviluppo e, già a partire dalla fine del secolo scorso, ne era diventato un ostacolo.

Secondo Baran le crisi economiche che si risolvono in guerre e spese militari improduttive sarebbero la prova che il sistema capitalistico non è più la forma di organizzazione che consente il massimo sviluppo, derivando la conseguenza che un sistema socialista può considerarsi una risposta efficace ai problemi del sottosviluppo.

Le principali osservazioni sulla teoria dell’imperialismo possono essere riassunte in quattro punti:

  1. l’analisi di Lenin sembra dotata di acuta capacità interpretativa dei fenomeni che si svilupperanno fino alla seconda guerra mondiale, ma diventa irrilevante per la comprensione del periodo successivo;
  2. gli economisti che hanno trattato questa teoria hanno analizzato bene le economie delle potenze avanzate ma manca totalmente un’analisi del funzionamento e delle tendenze delle economie sottosviluppate;
  3. il fondamento di una teoria dell’imperialismo come carattere del capitalismo contemporaneo sta essenzialmente nell’incapacità del sistema capitalistico di realizzare il plusvalore e/o di trovare impieghi soddisfacenti per il profitto realizzato;
  4. alcune rivisitazioni della teoria dell’imperialismo nel dopoguerra erano fortemente influenzate dalla divisione del mondo tra sistema capitalista e sistema socialista, il secondo dei quali sembrava in grado di sviluppare al massimo grado le forze produttive e offrire un esempio ai paesi sottosviluppati. È facile oggi notare che questo non è stato possibile.

1.2 La teoria della dipendenza

Questa teoria è stata sviluppata prevalentemente da economisti e sociologi dell’America Latina, il che è significativo per comprenderne definizioni e generalizzazioni.

La tesi centrale della teoria della dipendenza è che sviluppo e sottosviluppo sono fenomeni connessi tra loro, e che il rapporto tra la parte sottosviluppata del mondo e quella sviluppata è un rapporto di dipendenza. Questa rapporto si può definire come una situazione in cui l’economia di un paese si sviluppa, si espande o si contrae come riflesso dell’andamento dell’economia degli altri paesi. Questa posizione asimmetrica è il risultato, tra l’altro, della coincidenza di interessi tra settori sociali privilegiati dei paesi sottosviluppati e interessi dei paesi dominanti.

Le forme di dipendenza sono mutate nel tempo: prima i paesi sottosviluppati dipendevano dall’esportazione di prodotti agricoli e minerari verso l’Europa, successivamente lo sviluppo verificatosi in alcuni paesi è dipeso dagli investimenti e dai prestiti provenienti dai paesi avanzati; attualmente l’aspetto principale della dipendenza è quello tecnologico, dato che le politiche volte all’industrializzazione richiedono conoscenze e mezzi della produzione che solo i paesi industriali possono offrire.

Altre due tesi sono comuni a molti autori della teoria della dipendenza.La prima sostiene che il meccanismo dello sviluppo nei paesi dipendenti porta ad una sperequata distribuzione del reddito che riduce la capacità d’acquisto delle grandi masse e limita il mercato interno, impedendo il formarsi di impulsi endogeni allo sviluppo.

La seconda sostiene che in realtà le economie sottosviluppate sarebbero unificate da un rapporto di dipendenza tra settore moderno e settore tradizionale, che riproduce la dipendenza esterna.

Un primo limite della teoria della dipendenza è che poco si presta per essere applicata ad altri paesi o continenti al di fuori dell’America Latina o a processi verificatisi in tempi diversi e con diverse modalità.

Un secondo limite sta nella indeterminatezza del concetto stesso di dipendenza. Secondo alcuni autori l’espansione delle economie dei paesi sottosviluppati è correlata positivamente a quella dei paesi avanzati, mentre secondo altri autori è proprio nei momenti di crisi delle economie avanzate che si presentano condizioni favorevoli per l’espansione delle economie arretrate.

Un ulteriore limite a questa teoria è la sua sterilità, in quanto non indica un percorso lungo il quale i paesi sottosviluppati possono superare la loro condizione.

2. Modo di produzione e formazione sociale

Con i termini “modo di produzione” e “formazione sociale” si definiscono dei concetti e tipi ideali, che ci descrivono il possibile modo di essere e divenire dell’insieme delle attività economiche o degli insiemi delle diverse attività sociali. Si tratta di concetti tali che il movimento di ciascuno di essi è posto come dipendente dal movimento di ciascun altro e dal movimento della totalità che risulta dalle loro reciproche relazioni.

Il concetto di modo di produzione definisce forme di organizzazione dell’attività economica vista come l’unità di elementi oggettivi e soggettivi, che concorrono alla produzione delle condizioni materiali di esistenza della vita umana e quindi alla riproduzione materiale di una società. A livello oggettivo comprende: i mezzi di lavoro, le conoscenze, le esperienze e le abilità dei soggetti che le usano e la combinazione degli uni e degli altri nella produzione e circolazione dei prodotti. Sono quelle che Marx chiama “forze produttive”. A livello soggettivo vengono messi in evidenza da un lato i rapporti che esistono tra i soggetti in base alle funzioni ad essi assegnate nell’organizzazione economica e quindi nella divisione del lavoro, dall’altro lato i rapporti che si stabiliscono in base al modo in cui nella società è attribuito ai diversi soggetti il potere di disposizione sugli oggetti, i mezzi ed i prodotti del lavoro. Questi ultimi sono detti da Marx “rapporti sociali di produzione”.

Il concetto di formazione sociale definisce l’insieme delle attività sociali, di quelle economiche e di tutte le altre nelle quali gli uomini entrano tra loro in rapporto. La formazione sociale è un sistema che comprende altri subsistemi quali modo di produzione, sistema delle parentele, sistema politico, sistema giuridico, sistema religioso ecc. La formazione sociale designa una forma di società come viene definita dalle caratteristiche dei suoi subsistemi sociali, dalla loro articolazione, dal peso di ciascuno di essi nel funzionamento e nella dinamica del sistema sociale.

Considerando i concetti di modo di produzione e di formazione sociale è possibile inquadrare i processi di mutamento seconda un’ottica profondamente diversa da quella propria dell’etnocentrismo e del paradigma della modernizzazione. Comprendere una società non significa metterla a confronto con una società moderna, definendone i comportamenti in base a modelli validi per quest’ultima e valutandone le differenze in termini di mancanza o arretratezza, ma ricostruirne la struttura ed il funzionamento ad essa specifici. In questo modo le trasformazioni di una società non vengono più lette come un percorso obbligato verso uno stadio più avanzato. Modi di produzione e formazioni sociali diverse coesistono nella storia e si susseguono secondo ordini non uniformi: il passaggio da una forma di economia ad un’altra non è un momento di progresso pacifico ma il punto culminante di una crisi.

3. Il mondo prima del capitalismo

3.1 Modi di produzione precapitalistici

L’origine del sottoviluppo coincide con il periodo in cui nascono i concetti moderni di arretratezza e di progresso, che è il periodo delle grandi scoperte geografiche, dell’inizio dell’espansione europea e della formazione dei presupposti per la formazione della moderna economia capitalistica.

Nel tempo precedente all’epoca moderna, il mondo poteva essere rappresentato come un arcipelago, le cui isole avevano pochi e radi contatti le une con le altre, e alcune isole erano sconosciute agli abitanti di altre isole. I rapporti tra un’isola e le altre erano marginali e la loro influenza non era tale da condizionare l’economia e la società.

In questi tempi l’Europa occidentale e centrale è una di queste aree, che ignora l’esistenza di molte altre “isole”. Nelle porzioni di mondo esterne all’Europa esistono modi di produzione e formazioni sociali diverse, che possono essere aggrappate in tre categorie:

  1. società comunitaria – tribale
  2. società tributaria
  3. società feudale

Nelle società comunitario – tribali (molte regioni dell’America, Oceania, Africa Subsahariana) la struttura si fonda sui rapporti di parentela, in base ai quali sono organizzate le unità produttive di base. La struttura politica è varia, ma generalmente il potere spetta agli anziani. Le attività economiche prevalenti sono la caccia, la pesca, l’agricoltura e l’allevamento. La terra è libera e assegnata dagli anziani alle famiglie secondo le necessità di ciascuna. Il potere degli anziani non si basa sulla proprietà dei mezzi di produzione, ma si basa sull’autorità che deriva dalle loro maggiori conoscenze. L’economia è finalizzata all’autosussistenza e il sovrappiù confluisce in un fondo comune ridistribuito in caso di cerimonie o necessità o viene effettuato per fare doni.

Nelle società tributarie (Asia, America Centrale) le società sono organizzate in grandi imperi, la cui unità è personificata da un capo, spesso ritenuto di discendenza divina. La struttura è divisa in due livelli: alla base le comunità familiari, tribali, di villaggio dedite prevalentemente all’agricoltura, e sovrapposta, una comunità superiore composta da funzionari regi, caste sacerdotali, capi militari. Questa classe superiore ha il compito di difendere il territorio da invasioni, di regolare la distribuzione delle acque, di costruire strade e fortificazioni. Questa classe si appropria del sovrappiù prodotto, mediante l’esazione di tributi, in natura o denaro, o mediante l’imposizione di lavoro coatto ai subordinati. Anche qui l’attività prevalente è l’agricoltura, ma l’estensione dei territori unificati favorisce i commerci, i quali, mediante il sovrappiù prodotto, alimentano l’artigianato.

Nelle società feudali (Europa medioevale) l’attività prevalente è l’agricoltura, mentre l’industria ha carattere artigianale e occupa prevalentemente gli agricoltori nelle fasi di pausa dei lavori agricoli o si svolge in botteghe di città dove il maestro artigiano lavora con pochi apprendisti. Il commercio è limitato ai rapporti tra città stato mentre il commercio a lunga distanza provvede i rifornimenti in momenti di carestia. La struttura dei rapporti sociali ha una forma piramidale, con l’imperatore al vertice e i contadini alla base, i quali ricevono le terre dal signore locale in cambio di servigi o di un canone in natura. I signori locali hanno avuto la terra in concessione dal Re o dall’Imperatore in cambio di fedeltà e servigi militari. L’economia feudale ha l’obiettivo della sussistenza e della produzione di un sovrappiù che viene speso dai signori in forme di consumo vistoso. Il sovrappiù estratto dal lavoro agricolo mantiene la classe degli artigiani e dei mercanti e i numerosi seguiti feudali che vivono nei castelli o intorno ad essi. Una parte minore del sovrappiù affluisce al debole potere centrale attraverso forme di tassazione. La mobilità dei prodotti e dei fattori della produzione è limitata dal cattivo stato delle comunicazioni, dalla molteplicità e la scarsità delle monete e dalle barriere doganali.

3.2 La crisi del modo di produzione feudale

Le forme di organizzazione dell’economia nei diversi tipi di società analizzate precedentemente avevano numerosi aspetti comuni, il che ci fa capire perché, nella terminologia del paradigma della modernizzazione, vengano comprese sotto l’unica definizione “economia tradizionale”.

Ma le differenze sono tante e sostanziali. Due in particolare avranno conseguenza profonde nei processi che si verificheranno nei secoli successivi: una distingue le società comunitario – tribali dai principali imperi tributari, l’altra contrappone l’Europa a tutte le società extraeuropee. La prima differenza consiste nella mancanza, nelle società comunitario – tribali, di un apparato amministrativo – militare e di codici, statuti e leggi scritte.

La seconda differenza, più importante, riguarda il modo di produzione europeo. Le società tribali o gli imperi tributari erano società relativamente stabili, in cui i ruoli sociali si riproducevano immutati anche in seguito a mutamenti politici. Nei secoli che vanno dal Mille al XV secolo in Europa si affermano gli istituti feudali, che poi cadono in crisi perdendo potere. Questo processo avviene in due fasi, una di espansione, dal Mille alla metà del XIV secolo, l’altra di depressione nel periodo successivo.

Nella prima fase aumenta la popolazione e la produzione aumenta in misura superiore all’incremento demografico. Il sovrappiù alimenta l’attività artigianale e il commercio, arricchisce i ceti cittadini e porta alla fioritura delle città, che intensificano i traffici con il vicino Oriente. In questo modo il commerciante diventa una figura centrale nella vita economica e per poter svolgere il suo lavoro deve essere libero dagli obblighi e dalle regolamentazioni feudali. Inoltre gli artigiani che producono merci vendibili nei mercati lontani dipendono sempre più dai commercianti, mentre prima facevano parte di corporazioni che sorvegliavano la libertà dell’artigiano. La figura del libero artigiano si trasforma in molti casi in quella del lavoratore salariato.

Nella fase successiva la recessione demografica riduce le colture, ma in misura minore rispetto alla diminuzione della popolazione rurale. La conseguenza è che la produzione agricola diventa eccedente e porta alla caduta dei prezzi dei cereali, mentre i prezzi dei manufatti aumentano a causa della falcidia degli artigiani nelle città colpite dalla peste; inoltre i salari sia agricoli che urbani tendono a crescere. A causa delle guerre i prìncipi coinvolti sostengono troppe spese e aumentano la tassazione svalutando la moneta. Tutto questo porta ad una contrazione dei redditi fissi feudali. Il potere di questa classe, già insediato dal ceto dei mercanti, subisce un duro colpo e la reazione è diversa nell’Europa orientale rispetto a quella occidentale. Nelle province orientali i signori feudatari rafforzano ancora di più i vincoli feudali costringendo i contadini ad una subordinazione ancora più pesante. Nei paesi dell’Europa occidentale i signori in crisi sono costretti a dare forma monetaria alle obbligazioni dei contadini o a vendere parte della terra ai coltivatori, o, soprattutto, ai mercanti arricchiti delle città.

Alla fine di questa crisi altri personaggi si contendono il ruolo di protagonisti: il mercante, il servo divenuto proprietario o fittavolo, o anche il contadino impoverito. Si delineano anche le condizioni per la nascita del modo di produzione capitalistico e per l’affermazione degli stati nazionali. Gli ostacoli ai traffici commerciali ad oriente, determinati dall’espansione dell0impero Ottomano, spingono a cercare terre e risorse altrove, al di fuori del continente.

4. Le differenze di reddito tra paesi prima del capitalismo

Prima di esaminare i grandi mutamenti avvenuti con l’epoca moderna i quali hanno determinato l’origine del sottosviluppo, occorre discutere se esiste qualche prova che dimostri la non esistenza, prima di quel tempo, della divisione del mondo tra paesi sviluppati e sottosviluppati. Non essendo possibile confrontare le contabilità nazionali dei tempi (che non esistevano ancora), facciamo riferimento ad una teoria sviluppata dallo storico economico Paul Bairoch.

Questa teoria si basa su tre principali criteri: il primo consiste nel reperire tutti i dati possibili sul livello del prodotto nazionale dei paesi europei nei periodi precedenti la rivoluzione industriale, e tutti i dati possibili sul prodotto degli stessi paesi dopo la rivoluzione industriale. I primi dovrebbero indicare gli scarti di sviluppo prima della rivoluzione industriale, i secondi gli stessi scarti nel periodo successivo ma approssimativamente.

Il secondo criterio, più complesso, si basa su un duplice presupposto: da un lato si assume che il livello di vita di un paese non possa essere più basso del minimo indispensabile per sopravvivere, dall’altro che il livello di vita del paese più ricco prima della rivoluzione industriale non possa essere superiore a quello di un paese europeo dopo quattro – sei decenni dall’inizio della rivoluzione industriale. Confrontando i livelli di vita dei paesi più sviluppati dopo l’inizio dell’industrializzazione con i livelli di sussistenza si ricava un indice che misura gli scarti di sviluppo nelle economie preindustriali.

Il terzo criterio consiste nel rendere più omogenee possibile le testimonianze degli autori dell’epoca che si sforzarono di misurare la ricchezza e il prodotto nazionale.

Il risultato dell’applicazione di questi criteri è che nelle società preindustriali lo scarto massimo del livello di vita tra la nazione più ricca e quella più povera era di 1 a 1,5 – 1,6. Se invece si confrontano macroregioni, come ad esempio l’Europa con l’Asia, lo scarto è di 1 a 1,2 – 1,3.

Questa teoria è criticabile sulla base della qualità dei dati e sull’audacia delle assunzioni che presuppongono, ma vi sono tuttavia argomenti a favore: tutti gli indici portano a risultati molto simili e questi risultati sono concordi con le testimonianze letterarie dei tempi.

In definitiva, si può concludere che le differenze dei livelli di vita tra l’Europa e gli altri paesi del mondo erano, prima dell’epoca moderna, alquanto modeste.

5. Il mondo capitalista

5.1 Verso il capitalismo

Mentre prima dell’epoca moderna il mondo era diviso in aree esterne l’una all’altra, con l’avvento del capitalismo i rapporti fra le varie aree si intensificano , soprattutto fra le due sponde dell’Atlantico, unificandole in un unico sistema economico-sociale.

La disponibilità di denaro nelle mani di una parte della società e la necessità di vendere la propria forza lavoro da parte della maggioranza sono gli spunti per la nascita del capitalismo. Due punti sono importanti per descrivere questo fenomeno: il primo è l’importanza del crescente intensificarsi dei movimenti internazionali di merci, uomini e denaro, in seguito alle scoperte geografiche e all’egemonia europea sui continenti extraeuropei. Il secondo punto è la formazione degli stati nazionali, che favorisce l’unificazione dei mercati interni e la promozione di industrie che danno una spinta all’espansione del commercio estero e a una politica coloniale che considera le terre sottoposte a controllo come fonti di materie prime e come mercati di sbocco per i propri prodotti.

5.2 Le caratteristiche del modo di produzione capitalista

Una delle caratteristiche dell’economia capitalista è l’incessante rivoluzionamento delle forze produttive, la periodica modificazione delle tecniche, della divisione del lavoro, della tipologia dei materiali impiegati nella produzione. È possibile tuttavia individuare alcuni elementi che persistono nel tempo. I rapporti sociali di produzione esprimono il dominio di una classe, la borghesia, su un’altra classe, il proletariato, e sono mediati dai mezzi della produzione. Per ottenere il necessario alla sussistenza il proletariato deve vendere in cambio di un salario la propria forza lavoro agli imprenditori capitalisti che dispongono dei mezzi della produzione e dei fondi necessari al loro mantenimento.

Con la rivoluzione industriale il lavoratore diventa subordinato alla macchina, che determina i modi ed i ritmi della prestazione di attività lavorativa umana; la macchina viene introdotta nel processo di produzione in quanto consente di contenere i costi e rende il lavoro più produttivo.

Nel capitalismo il mercato viene ad avere una funzione fondamentale, e di conseguenza la moneta, che diventa il presupposto e il risultato del processo economico complessivo. Questo processo può essere raffigurato come un ciclo, che inizia con l’immissione di moneta da parte dei capitalisti e si conclude con la realizzazione in forma monetaria della produzione. Ciò che interessa i gli imprenditori capitalisti è il valore in termini monetari, più precisamente quella parte di valore realizzato sul mercato dopo che sono stati retribuiti i lavoratori e dopo che sono stati coperti tutti i costi della produzione. Il carattere monetario dell’economia capitalistica consiste dunque nell’essere una produzione di una maggiore quantità di moneta, mediante moneta.

Nel mondo capitalistico il potere viene assegnato in base al rapporto con i mezzi della produzione, e più precisamente in base al possesso di capitale, ed è maggiore quando il capitale è più grande. Di qui l’impulso che spinge alla trasformazione del profitto in nuovo capitale: il capitale viene impiegato con l’obiettivo primario della sua autoespansione.

La ricerca continua di profitto comporta la ricerca continua di nuovi mercati e di mezzi e metodi di produzione alternativi e meno costosi, per fronteggiare la concorrenza. Un ruolo fondamentale viene acquisito dal finanziere, dalle banche, dal mercato finanziario e monetario che forniscono moneta, creano il credito e stabiliscono le condizioni della concessione dei finanziamenti.

5.3 Il sistema mondiale: centro, semiperiferia, periferia

Il sistema mondiale che si forma presenta due fondamentali caratteristiche. La prima lo distingue dai sistemi economici del passato, che quando si estendevano su territori più ampi (Impero romano, domini arabi, Cina, India) corrispondevano alla creazione di imperi e unità politiche. Il sistema mondiale invece è caratterizzato da un unico modo di produzione, ma non è un’unità politica.

La seconda caratteristica è la sua struttura gerarchica, che vede un centro (inizialmente gli stati europei) e una periferia (le colonie del nuovo mondo e le regioni di altri continenti dove si creano scali per le flotte europee). Tra il centro e la periferia si pone la semiperiferia, che è costituita da quelle entità statali deboli, dove vigono ancora istituti feudali, e che concorrono allo sfruttamento della periferia pur non potendo rivaleggiare con gli stati più forti, e senza poter trarre un uguale impulso alla crescita economica e alla trasformazione del modo di produzione da questa situazione.

Con la rivoluzione industriale e lo sviluppo pieno del capitalismo si delinea più precisamente la divisione internazionale del lavoro. Al centro si situano le attività produttive che impiegano tecniche più avanzate, i mercati finanziari, e i quartieri generali delle società multinazionali. La periferia fornisce al centro materie prime, prodotti agricoli, forza lavoro; nella periferia vengono impiegati i capitali che non trovano sbocco al centro. Tra le due fasce si situano i paesi che facevano parte del centro ma che non sono riusciti a mantenere una posizione di egemonia, o paesi che hanno iniziato in ritardo il processo di superamento della condizione feudale, o ancora paesi che sono usciti dalla condizione di colonie e si stanno industrializzando.

Il meccanismo del mercato mondiale e l’azione degli stati tendono ad accentuare il divario tra le aree del sistema in termini di produttività, di sovrappiù, di remunerazione, di livelli di consumo. Il sottosviluppo è dunque il processo attraverso il quale aree inizialmente esterne entrano nel sistema economico mondiale come periferia: è il processo della loro periferizzazione.

6. Una ridefinizione dei concetti di sottosviluppo e sviluppo

Il sottosviluppo in senso statico è un concetto che definisce lo stato di un’economia in confronto ad altre, è più precisamente lo scarto esistente tra esso ed un determinato standard assunto come rappresentativo dello stato di sviluppo.

Il sottosviluppo in senso dinamico è il concetto di un processo che si svolge nel tempo e che comporta l’incapacità di un’economia di riprodursi nelle forme e dimensioni che la caratterizzavano in un dato momento. Il sottosviluppo come processo analizzato nei fattori che lo determinano, spiega il sottosviluppo come stato.

Il non sviluppo è un concetto che definisce una situazione di stagnazione. Si presenta sia per paesi che in seguito ad un processo di sottosviluppo si trovano nello stato di sottosviluppati, sia per paesi che non hanno conosciuto la crisi e la decadenza che caratterizzano quel processo.

Mentre la crescita è un fenomeno quantitativo, lo sviluppo è un mutamento nelle condizioni oggettive e soggettive della produzione e dei rapporti tra i diversi livelli delle attività sociali che modifica la forma del modo di produzione e della formazione sociale, senza però modificarne i caratteri essenziali.

La transizione è il passaggio di una economia e di una società da un modo di produzione e da una formazione sociale ad altri diversi.

Il processo attraverso il quale si è creata la contrapposizione tra paesi sviluppati e sottosviluppati può essere riassunto in due fasi.

La prima vede l’inserimento di sempre più ampie aree extraeuropee nel mercato mondiale e porta alla crisi dei modi di produzione e delle formazioni sociali in esse esistenti, dando un impulso alla transizione dal feudalesimo al capitalismo in Europa.

La seconda vede il verificarsi di processi di sviluppo diseguali nei diversi paesi e che tendono ad accentuare il divario tra sviluppati e sottosviluppati.

Capitolo 3 – Formazione e trasformazioni della periferia

1. Le fasi del processo di periferizzazione

È possibile distinguere il processo di periferizzazione in quattro fasi:

  1. dalla conquista dell’America alla rivoluzione industriale
  2. dalla rivoluzione industriale agli ultimi decenni del XIX secolo
  3. dagli ultimi decenni del XIX secolo alla seconda guerra mondiale
  4. dal secondo dopoguerra ai nostri giorni

La prima fase è caratterizzata dalla transizione dal feudalesimo al capitalismo, mentre le altre vedono trasformazioni che sono aspetti dello sviluppo del capitalismo.

2. Le fasi di sviluppo del capitalismo: contraddizioni e regolazione

La produzione capitalistica è un processo contraddittorio perché tende verso lo sviluppo delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, ma nello stesso tempo ha come scopo la conservazione del valore – capitale esistente e il raggiungimento del massimo profitto. Questa contraddizione è alla base dell’instabilità del capitalismo. IL processo di accumulazione è quindi discontinuo ed alla fasi di espansione succedono fasi di contrazione dell’attività economica, causate dal progresso tecnico che aumenta la produttività in proporzione maggiore dei salari e porta ad un’offerta superiore alla domanda, oppure causate da capitale che non si valorizza nella misura desiderata ed è eccedente rispetto all’obiettivo della valorizzazione, il che porta ad una contrazione di produzione e occupazione, ad una caduta dei prezzi e ad una crisi generalizzata.

Nonostante le sue contraddizioni il sistema capitalistico caratterizza l’economia mondiale da due secoli e non sembra tramontare. Queste perché al suo interno operano dei meccanismi di regolazione, che sono di due tipi: a carattere automatico e a carattere discrezionale.

I primi risultano dalla combinazione non intenzionale delle azioni individuali di una pluralità di soggetti. I secondi sono messi in atto da decisioni consapevoli o da accordi istituzionalizzati da soggetti economici che hanno l’autorità di imporli.

Se i meccanismi di regolazione funzionano, saranno in grado di mettere in atto controtendenze per riportare il sistema ad un comportamento soddisfacente in caso di crisi. Se invece non si riesce a compensare le tendenze della crisi è necessario un mutamento dei meccanismi di regolazione.

3. La periferia nella fase di transizione al capitalismo

3.1 L’espansione dell’Europa oltre i propri confini

Mentre Spagna e Portogallo occupavano le colonie in nome del sovrano ed era lo stato a gestire i nuovi mercati, Olanda, Inghilterra e Francia si affidavano alle compagnie privilegiate, società costituite da mercanti con capitale di nobili, possidenti e anche sovrani; spesso ottenevano in proprietà un territorio o in monopolio un prodotto. Così mentre Spagna e Portogallo nel XVI secolo possedevano vasti imperi governati dal sovrano, Inghilterra, Olanda e Francia si limitavano a traffici commerciali con lo scopo di rafforzare il proprio utile e insidiare quello degli altri.

Ma presto la Spagna non riesce più a sopportare l’aumentare dei traffici, insidiati da contrabbandieri e pirati, e limitati da una marina insufficiente. Anche il Portogallo, a causa della lontananza del suo porto, Lisbona, dal centro dell’Europa, non riesce a diventare un grande emporio commerciale.

Nel corso del XVI secolo il principale bacino di traffici diventa il mare del nord. Dapprima con l’Olanda che, ottenuta l’indipendenza dalla Spagna, vede crescere un’economia all’avanguardia e fiorente. In seguito l’Inghilterra e la Francia si affermano come stati saldamente unificati e illustrano bene l’aspetto fondamentale del processo di transizione al capitalismo di cui abbiamo già parlato: il ruolo dello stato nazionale. Nello stato nazionale la ricchezza della nazione e il presupposto della potenza dello stato, il che connette gli interessi della nascente classe capitalistica e la politica dello stato nazionale.

Inizialmente si pensava che la ricchezza di un paese dipendesse dalla sua dotazione di oro e argento. Ma quando le miniere del nuovo mondo cominciano ad inaridirsi, l’attenzione dei governi si sposta su una diversa fonte di denaro: l’attivo della bilancia commerciale. L’eccedenza delle esportazioni sulle importazioni diventa l’obiettivo centrale del pensiero economico, che allora vedeva la ricchezza di un paese come l’impoverimento di un altro. Le colonie vengono quindi considerate come fonti di materie prime per la manifattura, liberando quest’ultima dal vincolo di importare tali merci da paesi concorrenti. Inoltre le colonie diventano un mercato di sbocco per i prodotti di un paese.

Il panorama mondiale del XVII secolo vede definita una struttura gerarchica con un centro nel Nord – Ovest europeo, una semiperiferia nell’Europa centro – meridionale, una periferia che va dall’Europa orientale, dove gli istituti feudali delle campagne si rafforzarono, fino alle colonie d’America. Si delinea anche il ruolo della periferia: le colonie americane forniscono materie prime all’industria europea e l’Africa fornisce manodopera forzata (gli schiavi) alle stesse colonie americane.

L’importanza della ricerca dell’oro e del controllo dei porti sulle rotte navali fu la causa delle molte guerre tra le potenze europee, guerre che si combatterono per lo più nelle colonie, per mare e per terra, fuori dall’Europa.

3.2 La colonizzazione dell’America

La principale periferia mondiale che ebbe i maggiori effetti sullo sviluppo del centro e sulla formazione di altre periferie è il Nuovo Mondo. A differenza dell’Asia, gli imperi che esistevano in queste aree avevano gravi elementi di debolezza, e l’isolamento dal resto del mondo lì fece trovare impreparati al contatto con i nuovi arrivati, che per di più possedevano tecniche, soprattutto militari, superiori. Inoltre aree molto vaste del continente, come le regioni a Nord e a Sud-Est, erano scarsamente popolate.

Mentre negli altri continenti gli europei si limitarono a costituire delle basi marittime sulle coste o a colonizzare piccole aree dove intendevano avviare l’attività commerciale, in America fu colonizzato l’intero territorio, ad eccezione di piccole aree interne, e furono fondati Imperi, a cominciare da quello Spagnolo e quello Portoghese. Gli imperi tributari preesistenti vennero distrutti e le popolazioni sterminate.

Il principale movente di esploratori e conquistadores era la ricerca dell’oro e dell’argento, che li portò in un primo momento a saccheggiare i palazzi reali, e successivamente a sfruttare le miniere e la produzione agricola.

Venne introdotto nel Nuovo Mondo l’istituto feudale, e la terra venne data in concessione a nobili, conquistatori, colonizzatori, sia nei possedimenti spagnoli e portoghesi che in quelli inglesi e francesi. Il potere dei signori feudali andò attenuandosi nel tempo a seconda dei cambiamenti che avvenivano in Europa, con l’introduzione di riforme e l’intervento statale centrale diretto.

Nei territori spagnoli e portoghesi la terra fu data in concessione soprattutto a militari e nobili, che utilizzavano la popolazione indigena nei campi e nelle miniere, ricorrendo spesso all’importazione di schiavi africani. La non coincidenza tra aree di popolamento indio e aree minerarie portò al trasferimento di intere popolazioni. Le condizioni di vita dei servi erano talmente dure che, insieme all’arrivo di nuove malattie dall’Europa, la popolazione fu presto decimata.

Nelle terre inglesi o francesi si ebbe invece un afflusso di lavoratori bianchi liberi, e spesso si trattava di servi bianchi temporanei, che lavoravano in cambio del mantenimento, finché non avessero pagato i loro debiti. In alcune colonie si fece ricorso all’importazione di schiavi africani.

L’organizzazione della produzione vennero determinate dalle caratteristiche delle diverse regioni dell’America e delle condizioni socio-economiche dei paesi colonizzatori. L’emigrazione europea fu più favorita nelle zone con clima più simile a quello dei paesi d’origine, mentre nelle zone tropicali prevalse la coltura estensiva con manodopera locale o con schiavi africani. Inoltre l’arretratezza di Spagna e Portogallo rispetto allo sviluppo di Inghilterra e Francia influenzò il futuro delle rispettive colonie: la transizione al capitalismo era più avanzata in Inghilterra e Francia e gli emigrati in America portarono esperienze ed esigenze maturate in un ambiente che vedeva come valori l’individualismo e l’iniziativa personale. Inoltre nelle colonie inglesi e francesi vennero accolti emigrati che scappavano dalla Scozia, Inghilterra, Francia e Germania per motivi religiosi, e queste persone portavano nelle colonie spirito critico, insofferenza verso le imposizione del potere centrale e aspirazione all’autogoverno. Invece, nelle colonie spagnole e portoghesi, si instaurò l’Inquisizione e fu ostacolata l’immigrazione di eretici, mentre si combattevano i culti locali.

Tutti questi fattori determinarono la formazione di diverse organizzazioni della produzione: nelle aree più a Nord i coloni si dedicarono al commercio con gli indigeni; nella Nuova Inghilterra si diffuse la coltivazione di cereali basata sulla piccola e media proprietà; nella parte meridionale e nelle isole prevalse l’agricoltura di piantagione che impiegava il lavoro degli schiavi neri; Nel Messico e nella regione Andina ebbe più importanza l’attività mineraria, fondata prevalentemente sul lavoro coatto degli indigeni.

Nelle aree in cui prevalsero il lavoro libero e la piccola proprietà, si riuscì a conquistare gradualmente una posizione di autosufficienza: la produzione locale soddisfaceva i bisogni fondamentali, la disponibilità di terra libera manteneva bassa la rendita agraria e alti i salari nelle città, l’ampiezza della domanda stimolava lo sviluppo di attività artigianali, manifatturiere e commerciali; il commercio si diresse anche verso aree esterne, infrangendo il monopolio del centro.

Nelle regioni dal Golfo del Messico fino al Sud del continente si formò un’economia strettamente dipendente dall’Europa. L’attività agricola e quelle estrattiva erano subordinate al capitale commerciale, indirizzandosi alla monocultura, a seconda della richiesta del mercato. Il reddito ottenuto era impiegato per l’acquisto di importazioni, tra cui i principali erano schiavi e beni di lusso europei consumati da una ristretta elite nelle città. Lo scambio avveniva nei porti tra mercanti internazionali e signori locali, il che non favorì la nascita di una classe mercante locale. I lavoratori – schiavi erano mantenuti al limite della sopravvivenza, il che non favorì la nascita di un proletariato e di una classe di imprenditori.

3.3 Mercanti e coloni in Asia

Nella fase di transizione dal feudalesimo l’Africa e l’Asia si possono considerare aree esterne al nuovo sistema mondiale. Tuttavia l’Asia mantiene rapporti commerciali che si estendono e si intensificano e che la porteranno ad inserirsi nel sistema mondiale in funzione di periferia.

Con la costituzione dell’Impero Ottomano si cerca di trovare vie marittime alternative a quelle terrestri, ed i primi a riuscirci sono i portoghesi, che costituiscono delle basi sulle coste indiane, mandando in rovina i commercianti mussulmani. Il monopolio del Portogallo viene infranto dagli olandesi, a cui seguono inglesi e francesi. Presto entreranno in conflitto per la conquista dell’egemonia.

Questa penetrazione europea non esercita un’influenza sulle economie e sulla cultura degli imperi asiatici, in quanto i rapporti con i sovrani indiani non portano a risultati soddisfacenti e quelli con l’imperatore cinese vengono resi difficili dalla pretesa di questo di essere considerato l’imperatore del mondo intero.

Invece, nell’Indonesia si attivano i commerci ed i processi di periferizzazione e di colonizzazione, specialmente nell’isola di Giava. Però qui gli indigeni non mostravano molto interesse alla merce che gli europei davano in cambio, inoltre non erano interessati ad intensificare la produzione (di spezie) per aumentare il flusso del commercio. Quindi gli olandesi dovettero intervenire nella produzione, portando a due forme del processo di periferizzazione: una colonizzazione con piantagioni in concessione a coloni bianchi, e lo sfruttamento dell’agricoltura indigena. L’agricoltura venne indirizzata verso una monocoltura, e laddove vi era carenza di manodopera i contadini venivano obbligati a prestazioni di lavoro; in qualche caso si ricorse al lavoro servile sviluppando un commercio di schiavi, prima inesistente tra le isole. La società diventò più autoritaria ed i livelli di vita più precari.

Lo sfruttamento delle risorse del paese avvenne in due forme: una consisteva nel prelievo di prodotti come tributi, l’altra consisteva nell’acquisto delle quantità richieste a prezzi fissati per un certo numero di anni e grandemente inferiori a quelli del mercato europeo. In entrambi i casi si verificava un trasferimento di sovrappiù verso il centro, che è una caratteristica dei paesi periferici.

3.4 Il mercato delle “pelli nere”

La tratta degli schiavi venne iniziata dai portoghesi, che li impiegavano in patria e a Madera, per rifornire di manodopera le loro piantagioni in Brasile, in quanto la popolazione locale era scarsa e poco adattabile al lavoro agricolo. Con il diffondersi dell’economia di piantagione tutte le potenze coloniali fecero uso di schiavi provenienti dall’Africa: così il continente nero si inserì nel sistema mondiale come riserva di manodopera forzata.

La diffusione degli schiavi è dovuta al loro costo, calcolato come tre volte inferiore a quello di un normale lavoratore. Inoltre gli stati europei cercavano di limitare l’emigrazione, e chi emigrava preferiva andare nelle regioni del nord, in quanto il clima era più simile a quello della madre patria. In più, quando si diffuse l’impiego di schiavi neri, i lavoratori bianchi si rifiutavano di lavorare con loro.

All’inizio del XIX secolo la Danimarca si ritirò dal commercio di schiavi, e via via tutte le potenze coloniali, fino alla dichiarazione antischiavistica del Congresso di Vienna del 1814. Però il commercio “illegale” rimase fiorente per alcuni decenni.

Le dimensioni della tratta sono stimate in poco meno di 12 milioni di schiavi venduti in Africa ai mercanti Europei. Le conseguenze per l’Africa furono di tipo demografico, economico e socio-politico.

Dal punto di vista demografico l’esportazione di schiavi ha pareggiato la crescita della popolazione, mantenendola stagnate ed impedendone l’aumento che viene considerato per i paesi europei come uno stimolo allo sviluppo agricolo ed industriale iniziato nel XVIII secolo.

Dal punto di vista economico, il commercio negriero stimolò l’offerta di schiavi, parte dei quali vennero impiegati all’interno, anche dove prima la schiavitù non esisteva; di conseguenza la retribuzione del lavoro libero venne mantenuta bassa, limitando la formazione della domanda interna e ritardando lo sviluppo della produzione.

Dal punto di vista socio-politico, la tratta arricchì la classe dominante, che poté procurarsi armi con cui assoggettare altre popolazioni: divennero così più frequenti le guerre tra diversi stati come mezzo per procurarsi schiavi.

Con la fine della tratta, l’Africa, cessando di essere produttrice di forza lavoro, divenne produttrice di prodotti agricoli per il centro. Gli schiavi che non potevano più essere venduti vennero impiegati all’interno. La loro importanza era tale che le autorità coloniali, nonostante il divieto e le dichiarazioni antischiavistiche, tolleravano la schiavitù, ritenendola un’istituzione fondamentale ed insostituibile per l’economia dei paesi africani.

4. La periferia nella fase del capitalismo concorrenziale

4.1 La rivoluzione industriale e la supremazia dell’Inghilterra

La transizione dal feudalesimo al capitalismo si conclude con la rivoluzione industriale. Questa cominciò in Inghilterra grazie all’unificazione politica amministrativa ed economica dell’isola, grazie alla crescita demografica e soprattutto grazie alle innovazioni tecnologiche. Dal Regno Unito la rivoluzione industriale si diffonde in modo ineguale nel resto d’Europa, a cominciare dal Belgio e dall’Olanda, seguiti poi da Francia e Germania.

Fino alla metà dell’Ottocento la crescita economica è trainata dall’industria leggera che produce beni di consumo, trasmettendo l’impulso espansivo ai settori con i quali è collegata: siderurgia, meccanica, estrazione di carbone. L’impresa tipica è di medie dimensioni e identificata con un uomo o una famiglia. Il modo prevalente di formazione del capitale è l’autofinanziamento.

Lo sviluppo industriale è stimolato dalla crescita della popolazione, iniziata nel ‘700, e accelerata da l’uso di nuove tecniche agricole che rendono eccedente la manodopera nelle campagne, spingendo gli abitanti nelle città. Inoltre fanno il loro ingresso nel mondo del lavoro le donne ed i bambini, impiegabili nelle semplici lavorazioni consentite dalle macchine.

Possiamo parlare di questo periodo come del capitalismo concorrenziale, caratterizzato dalla scomparsa delle barriere al movimento del lavoro e del capitale, dal gran numero di imprese, dalla facilità di ingresso nel mercato consentito dalla modesta quantità di capitale necessario e dalla debolezza delle organizzazioni operaie.

I limiti che nell’Ottocento ancora si opponevano alla rivoluzione industriale sono rimossi da due fenomeni principali: la rivoluzione dei trasporti e l’adozione del libero scambio. Le ferrovie si sviluppano collegando le principali città europee e le due coste degli Stati Uniti, e la navi a vapore sostituiscono quelle a vela. Si creano così le condizioni per unificare i mercati nazionali, per un’integrazione tra agricoltura e industria e per vasti movimenti di persone dai paesi europei sovrappopolati ai paesi extraeuropei con scarsità di popolazione, riducendo la pressione sul mercato del lavoro in Europa e alimentando nel resto del mondo lo sviluppo economico.

È l’Inghilterra la prima ad eliminare le leggi che limitavano le importazioni ed a stipulare nuovi contratti di navigazione. L’esempio sarà presto seguito dagli altri paesi europei. Si delinea così il mercato mondiale: la rete sempre più fitta dei trasporti unisce tutte le parti del mondo, consentendo una generale divisione del lavoro basata sulla complementarietà tra paesi agricoli e paesi industriali, al centro dei quali si pone la Gran Bretagna.

La Gran Bretagna è anche il centro finanziamento del mercato mondiale. La supremazia inglese nella tecnica, nel commercio e nella finanza le conferisce un potere monopolistico, che si manterrà fino alla fine dell’Ottocento, quando il suo primato verrà conteso da altri paesi.

4.2 Nuove funzioni della periferia

In questa fase molti paesi che precedentemente erano solo stati sfiorati dalle esplorazioni vengono colonizzati (Australia, Nuova Zelanda), la colonizzazione europea si estende all’intero subcontinente indiano, all’Africa magrebina, occidentale e meridionale. L’impero cinese apre le sue frontiere al commercio occidentale e i più antichi possedimenti europei conquistano l’indipendenza (colonie americane) trasformandosi in stati sovrani con funzioni di semicolonie. Infine, ai paesi di colonizzazione da popolamento inglese viene riconosciuta una forma di autogoverno, pur nell’ambito dell’impero.

Si possono così mettere in evidenza tre fenomeni: la divisione internazionale del lavoro, l’inizio del distacco dalla periferia dei paesi di colonizzazione britannica, la trasformazione per alcuni paesi della dipendenza politica in dipendenza economica.

Le nuove funzioni della periferia sono l’approvvigionamento di materie prime per il centro e il consumo di prodotti eccedenti nel mercato centrale. Questo fa si che vengano riorganizzate le economie della periferia, in modo che possano soddisfare al meglio le esigenze delle industrie del centro. Inoltre la ricerca di mercati extraeuropei porta alla distruzione dell’artigianato e della manifattura nella periferia. I prodotti meno costosi del centro, in quanto prodotti con tecniche meccanizzate, imitano quelli delle zone di origine (periferia) e li soppiantano anche nei paesi originariamente produttori.

In questo momento, il divario tra il centro e la periferia è aumentato, rispetto ai momenti precedenti la rivoluzione industriale, e tenderà ad aumentare sempre più.

Nell’America Latina la fine del monopolio spagnolo e portoghese e la proclamazione di stati nazionali favorì l’apertura dei porti al commercio mondiale. All’inizio nacquero anche industrie locali che però vennero ben presto soffocate dalla concorrenza britannica.

L’Inghilterra dominò anche nel settore finanziario e bancario. Con l’inizio delle costruzioni di ferrovie le necessità finanziarie degli stati aumentarono e li portarono ad indebitarsi sul principale mercato finanziario, quello di Londra.

La convenienza per l’industria e il commercio ad una continua espansione degli scambi migliorò le ragioni di scambio per le materie prime ed i prodotti agricoli. I grandi latifondisti trassero vantaggi da questo, ma ne usufruì per l’allargamento delle sue proprietà e nel commercio, disinteressandosi a innovazioni tecnologiche o allo sviluppo industriale.

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